Tutto, niente

Antonio Possenti, dieci anni fa

Possenti nel suo studio.
Copy Flavia Piccinni, 2010.

 

Antonio Possenti aveva degli occhi grandi, chiarissimi, e una barba bianca che gli incorniciava il volto. Aveva uno straordinario e invidiato talento, che ne ha fatto il più stimato pittore lucchese. Possedeva una dote incredibile: la capacità di comprendere con uno sguardo sempre personale la realtà, e subito dopo di trasformarla in poesia attraverso il pennello. Aveva anche un’aria enigmatica, che stava tutta raccolta dietro le camicie chiare che portava sempre con delle incredibili bretelle; e poi i suoi cappelli: chi non li ricorda? E, ancora, chi non rammenta mentre passeggiava lentamente per Via Fillungo, da solo o con l’elegante bastone, e i più si fermavano a salutarlo con reverenza e sussurravano: “A presto, maestro”? Di quelli che si fermavano, ne conosceva ben pochi; eppure lui era cordiale sempre, con quella modestia molto lucchese, e molto apprezzabile, che è stata raccontata a più riprese dai suoi estimatori – adesso attraverso gli scritti di Giovanni Faccenda ora attraverso il libro-intervista firmato da Mario Rocchi o da Maurizio Vanni; finanche al piccolo schermo, dove è approdato con il documentario “Storie di Altromare” diretto da Lorenzo Garzella.

Negli anni – come la maggior parte dei luchesi – ho incontrato molte volte Antonio Possenti nel suo straordinario studio che affacciava su Piazza Anfiteatro, dove si poteva trovare di tutto: c’erano centinaia di tele, stanze zeppe di pitture e altre, ancora, con soli campanacci o solo chiavi antiche; era un museo d’artista incredibile, con ogni cosa che custodiva il pensiero e l’arte di Possenti. Indelebile più di ogni altra cosa fu la prima volta che lo incontrai, oltre dieci anni fa. Mi raccontò di una storia incredibile avvenuta esattamente sessant’anni prima (che adesso sono praticamente settanta) in un giorno in cui indossava la sua giacca rivoltata preferita, che era stata del fratello maggiore. Portava anche, quel giorno, la camicia azzurra, un paio di pantaloni alla zuava, le scarpe di cencio. E lei, Eleonora – perché c’è sempre una lei – una camicetta bianca, una gonna lunga blu, i calzini e le scarpe nere, di pelle. “Non era bella – mi spiegò -, ma aveva un sorriso gentile e gli occhi grigi, che assomigliavano al cielo prima di una tempesta. Portava un paio di occhiali tondi, neri, e li sfiorava continuamente”. Quel giorno, Possenti era in una Piazza Napoleone che brulicava di gente: si festeggiavano dieci anni dalla canonizzazione di Santa Gemma Galgani, operata da Papa Pio XII nel 1940. “Lucca – mi disse – era in festa ed erano arrivate famiglie, giovani e molte ragazze da tutta la Toscana. Io ero studente al ginnasio e con un mio compagno di classe eravamo andati ad assistere alla festa. In realtà, speravamo di incontrare qualche fanciulla perché, allora, era molto difficile avere rapporti con il sesso femminile”. Allora, erano gli anni cinquanta e Lucca aveva la geografia perfetta della cittadina di provincia, con le mura pronte a delimitare il “dentro” dal “fuori”, con le lezioni a scuola dove le compagne di classe assomigliavano a delle creature irraggiungibili e allo stesso tempo minacciose, con i pomeriggi passati a studiare le declinazioni al liceo classico frequentato da Possenti (cui seguì giurisprudenza), a correre in bicicletta per i vicoli della città e a cercare di fare conquiste. Ma le conquiste apparivano impossibili, e bastava anche solo uno sguardo per iniziare a sognare. “Le occasioni – ricordava Possenti – erano rare. La più comune era il sabato pomeriggio, durante le passeggiate in Fillungo, mentre i genitori da lontano controllavano che non succedesse niente di inopportuno. I maschi camminavano sulla destra e le ragazze sulla sinistra, gli occhi si incrociavano di rado e i sorrisi erano una rarità, ma bastava poco, un niente, come avvicinare il blu al giallo, per far nascere una sfumatura brillante e unica, indimenticabile”. Ricordo che allora pensai che forse era da questa capacità di creare cortocircuiti di colori ed emozioni che era nata quella straordinaria capacità di coniugare la favola e il quotidiano. “C’era una giovane che mi piacque, e speravo che mi notasse. Quando lei si voltò verso di me, le sorrisi. Lei ricambiò. Capii che la mia corte poteva essere accettata e così, impacciati, Francesco e io ci avvicinammo. Sapevamo che era un’occasione da non perdere”. I due sapevano, o forse speravano e basta, che sarebbe successo qualcosa, ma erano anche preoccupati perché sarebbe dovuto toccare a loro, proprio come avevano imparato dai racconti degli amici più grandi, fare la prima mossa. “Quando ci spiegarono che venivano da Castelnuovo Garfagnana, Francesco ebbe un’intuizione e allora le invitammo a vedere un film. Eravamo convinti che non accettassero, e invece…”. E invece Possenti si ritrovò al cinema con la ragazza e d’un tratto l’inaspettato si concretizzò: “Lei si voltò verso di me, e mi baciò. Io ero completamente impreparato e mi lasciai sfiorare da lei, che sembrava così esperta. Fu una sensazione bellissima, perché per molti mesi avevo fantasticato sul mio primo bacio, ma mai avrei immaginato di riceverlo in un’occasione del genere, da una sconosciuta”. Ricordo ancora che subito dopo scoppiò a ridere, e che poi si alzò per andare da qualche parte nel suo studio babilonia; vi riemerse dopo qualche minuto con un quadro in mano, che mi disse di non aver fatto vedere a nessuno. Era un piccolo pezzo di legno, che ritraeva una ragazza con dei lunghi capelli scuri, un paio di occhiali tondi e il sorriso gentile con al collo una fascia azzurra, una scritta dorata, che recitava Viva Maria. Me lo volle regalare, scrivendovi sotto delle parole gentili per il mio futuro. Il quadro lo conservo nello studio, e ogni tanto mi sorprendo ancora a guardarlo. Soprattutto quando penso che, fra poche settimane, saranno trascorsi tre anni dalla sua scomparsa. Eppure ci sono alcune persone, e sono gli artisti, che non muoiono mai. E Possenti mi piace ricordarlo mentre, seduto sulla zampa di un elefante indiano che aveva portato personalmente da non so quale sperduto villaggio al confine con il Pakistan, stava pensieroso e luminoso. In quel momento appariva esattamente come il soggetto più ricorrente dei suoi quadri: un uomo dalla barba lunga e dagli occhi grandi, espressivi. Un uomo complesso e geniale, che dietro quel sorriso enigmatico nascondeva un mondo.

Oggi su @IlTirreno. 

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Fra i rifugiati siriani in Libano e Giordania

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La Siria è un brandello di terra, dieci chilometri a Nord da qui. Sta compresa fra l’orizzonte e il cielo. È oltre le tende dentro cui piove d’inverno e già dalla primavera il caldo è insopportabile. È oltre i pranzi e le cene sempre e solo a base di patate, oltre l’acqua che deve essere riscaldata sul gas per potersi lavare, e perfino oltre gli incubi. Popola, la Siria, i ricordi, ma s’infila anche – e quando meno te lo aspetti – in quel futuro che per i 6milioni di rifugiati (di cui quasi 3 milioni bambini) resta sospeso.

“Siamo scappati – mi spiega Hassan, i capelli e gli occhi scuri, trentadue anni che sembrano sessanta – perché non c’era altro da fare. Sono venuto qui con tutta la mia famiglia per cercare di sopravvivere”.

Da quasi due anni, Hassan vive in un campo informale: sette tende messe in uno spiazzo alla periferia di Akkar. Lavora in modo saltuario come agricoltore, con la responsabilità di mantenere insieme a un altro giovane uomo la sua famiglia di quasi venti persone. A volte lo aiuta uno dei suoi tre figli, Ahmed, che di anni ne ha otto e possiede lo sguardo di un adulto; inclina un poco la testa, Ahmed, quando spiega: “Ad Hama avevamo una casa, degli animali, la campagna dove lavorava papà. Avevo una grande stanza tutta per me, mentre adesso…”. Si ferma. Gli occhi si aggrappano a quelli dei genitori. “Mentre adesso dormiamo tutti in una stanza, per terra. So che va bene così, ma a volte non riesco a prendere sonno con tutti quei rumori…”. È difficile trattenere le lacrime, e intanto ascoltare i racconti delle donne e degli uomini, guardare negli occhi i bambini, che dal 2010 – quando la guerra è iniziata – vivono in attesa, cercando rifugio prima spostandosi all’interno della Siria per sfuggire a Daesh, dunque oltre il confine.

“Alcuni miei amici – mi spiega ancora Hassan – sono andati in Turchia, altri in Giordania. Noi siamo partiti di notte, senza portarci dietro nulla. Solo i vestiti che avevamo addosso, i bambini sulle spalle. Eravamo trenta persone, abbiamo viaggiato per cinque giorni e cinque notti sotto i bombardamenti, attraversando campi minati, non guardandoci indietro”. Mentre parla la moglie – il viso incorniciato dal velo, i piedi nudi – serve in piccoli bicchieri di vetro del the speziato. Intanto, i bambini annuiscono. Hanno vissuto la guerra sulla loro pelle, e ogni giorno la ritrovano nei ricordi. Di quel periodo dicono solo “è stato l’inferno, ancora oggi quando sentiamo un aereo sopra di noi abbiamo paura, alcuni cominciano a piangere”. Fra di loro, alcuni il conflitto lo hanno vissuto. Altri, invece, lo hanno scoperto dai racconti. “Qui – spiega Mohammad, l’anziano del campo e padre di Hassan – non abbiamo nulla, ma almeno i nostri figli e nipoti grazie al progetto vanno a scuola, imparano a scrivere e a contare”. Si riferisce a Back to the future(vedi box) che mira a riportare a scuola i bambini siriani che a causa della guerra, ma anche delle condizioni economiche, non riescono a frequentare le lezioni. Un passaggio obbligato per evitare che le vite già disperate di questi piccoli siriani – stiamo parlando di 450mila bambini in Libano e 240mila in Giordania – si frantumino in milioni di pezzi e che venga negato loro anche il futuro. A spiegarmelo è stata Flavia Pugliese, responsabile di Terre des Hommes in Libano, quando mi ha raccontato di quei “bimbi che a causa del conflitto hanno perso tre, quattro, cinque anni di scuola. Bimbi che a dieci anni non sanno né leggere né scrivere. Bimbi che non possono andare a scuola perché devono aiutare a lavorare i genitori, perché non hanno abbastanza soldi per l’autobus o perché non vengono accettati nel turno pomeridiano che in Libano è stato attivato per fare fronte all’emergenza siriana”. Ma c’è anche il problema della lingua: i corsi sono anche in inglese e in francese, peccato che spesso i siriani conoscano esclusivamente l’arabo. “Impariamo l’inglese con le gare ed è divertentissimo” spiega Tauffì, che ha dieci anni. “Mi piace andare a scuola – continua – perché scopriamo tante cose, e non stiamo tutto il giorno fermi. Vorrei andarci di più. Anche perché al centro ci fanno usare per imparare la matematica i tablet, e io prima non ne avevo mai visto uno”. Simile entusiasmo è quello di Aziza, dodici anni. La incontro in un altro campo informale a Sarafand, nel Sud del Libano: “Quando mamma mi ha detto che sarei andata a scuola ho pianto. La notte prima non ho dormito e la mattina ero sveglia prestissimo, perché non volevo fare tardi”. Aziza studia il giorno al centro, e tutti i pomeriggi alle due va a scuola. “In classe siamo solo siriani. Conosco pochi libanesi, ma è normale perché loro vengono qui la mattina”. Quando le chiedo del suo futuro, Aziza non ha esitazioni: “Io voglio fare la dottoressa, per fare bene alle persone”. I sogni sono uguali a quelli dei bambini di tutto il mondo: c’è chi vuole diventare insegnante “come quello che ci spiega le cose”, chi pediatra, chi pompiere. Ma i piccoli siriani sognano anche cose molto semplici, che altrove sarebbero date per scontate. Sognano di avere un televisore, un letto, magari una casa. Alcuni, come Samar, grandi occhi verdi e i capelli alle spalle, undici anni e il sorriso contagioso, desiderano “tornare in Siria, rivedere i vicini, andare a giocare con i miei fratelli al campo dietro casa. Noi siamo scappati nel 2016, mia nonna mi ha detto che la nostra casa non esiste più, ma io voglio tornare ad Aleppo. Dovremo aspettare ancora, lo sappiamo, ma aspetteremo. La nonna mi racconta sempre di quando era bambina, e Aleppo era un giardino sterminato, tutto verde, con l’aria pulita e l’acqua che si poteva bere, non come qui che bisogna filtrarla. La Siria era il paradiso e io studio ogni giorno perché voglio che torni a esserlo”.

 

BOX

Portare i bambini siriani a scuola e sostenere i bambini libanesi e giordani che rischiano di abbandonarla per questioni economiche e sociali. È questo Back to the future, progetto delle ong Terre des Hommes Italia e Olanda, Avsi e War Child Holland finanziato con i soldi del Madad Fund, il Regional Trust Fund europeo creato nel 2014 per rispondere all’emergenza siriana. “Tutto parte dall’educazione e dalla cultura. Dare ai bambini siriani gli strumenti per formarsi, per imparare a leggere e a scrivere, è creare futuro” spiega Deborah Da Boit, coordinatrice regionale di Terre des Hommes per il Medio Oriente. Al progetto l’Unione Europea ha dedicato 12 milioni di euro – dei 1,5 miliardi stanziati nel 2014 con il Madad Fund per fornire assistenza medica, professionale ed educativa – arrivando a coinvolgere quasi 100mila persone fra Libano e Giordania.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 24 di ELLE. 

 

 

 

 

 

 

Tutto, niente

Manlio Cancogni

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Manlio Cancogni era un uomo che sapeva vedere le cose. Riconosceva le situazioni da uno sguardo. Decifrava le persone attraverso una battuta, o magari una parola che buttava lì, un po’ per caso; poi, come un pescatore esperto, aspettava. Aveva una risata acuta, che esprimeva gioia e sorpresa. Amava camminare, o andare in bicicletta per le Apuane. Dopo aver girato il mondo – e aver affrontato la guerra in Albania e in Grecia, molti anni a Parigi come corrispondente de «L’Espresso», nonché lunghi periodi americani da insegnante in New England – aveva scelto la Versilia. Aveva scelto di tornare nella terra natia dei suoi genitori, in una terra di mare e d’estate, che preferiva senza dubbio nella pacata solitudine autunnale e che riconosceva sempre come casa.

Poco rammentato dal grande pubblico – poiché, come è noto, il ricordo si affievolisce con la scomparsa; e quella di Cancogni è avvenuta, a 99 anni, il primo settembre di quasi quattro anni fa -, è stato forse uno dei più disincantati e irriverenti scrittori di tutto il Novecento. Vincitore del premio Strega nel 1973 con ‘Allegri, gioventù’e del Viareggio nel 1985 con ‘Quella strana felicità‘, Cancogni aveva iniziato a scrivere giovanissimo, arrivando a pubblicare più di trenta romanzi dal 1942 (quando venne mandato alle stampe dalla romana ‘Edizioni di Lettere d’oggi’ il romanzo ‘Delitto sullo scoglio‘, seguito dal vero esordio del 1956 per Einaudi con ‘La carriera di Pimlico‘). La passione per la scrittura era nata ai tempi del liceo classico – fece a Roma prima il Tasso, dunque il Giulio Cesare -, ed era maturata con gli studi a La Sapienza, dove si laureò prima in legge, poi in filosofia. A scandire la sua vita e la sua fortuna per vicessitudini trasversali  furono gli incontri con alcuni futuri grandi intellettuali e scrittori italiani. Fra questi compaiono Carlo Cassola, ma anche Carlo Levi, Eugenio Montale e Luigi Silori. Per una parentesi non troppo breve fu insegnante – ricordava spesso gli anni Quaranta, quando in bicicletta andava a insegnare a Sarzana -, antifascista per indole e per stilecombatté nella Campagna di Grecia e sul fronte albanese (indimenticabili i suoi racconti, sempre acuti, a riguardo). Scelse, dopo la Liberazione, di trasferirsi a Firenze e qui proseguì a studiare, iniziò a scrivere su numerosi quotidiani, si trasformò in giornalista e arrivò a firmare uno dei pochi articoli in grado di segnare la storia del giornalismo italiano: “Capitale Corrotta = Nazione Infetta”. Era un’inchiesta che si focalizzava sulla corruzione romana, e tutto nacque perché l’allora sindaco Rebecchini si rifiutò di rilasciargli un’intervista (pessima mossa da fare con l’audace Cancogni). Si trasferì a Milano, poi a Parigi, tornò in Italia come direttore a Torino della Fiera Letteraria, e ripartì per andare a insegnare negli USA letteratura italiana. Scriveva moltissimo, con una capacità straorinaria e una fluidità invidiabile: era in grado di scandagliare con coraggio la società italiana, e possedeva una straordinaria refrattarietà al compromesso. Era un provocatore nato, spesso si rivelava incontrollabile. Sopravvive ora nei testi recentemente ripubblicati come ‘Signor Tenente’(Elliot, € 18,50), edito per la prima volta da Einaudi con il titolo La linea del Tomorinel 1966 e vincitore del Premio Baguttao con la storia estiva ‘La cugina di Londra’.

Quando lo incontrai per la prima volta, più di dieci anni fa, stava seduto su una poltrona a fiori nella sua casa di Fiumetto, la spiaggia di fronte con una finestra che s’affacciava sulla battigia; dei bambini correvano dietro una palla rossa – lo ricordo quasi fosse accaduto poco fa -, e lui fissava quell’orizzonte con un’aria un poco corrucciata, le sopracciglia sottili e quegli occhi vigili che sbucavano sotto la visiera di un cappellino da baseball. Aveva delle dita lunghe, con le unghie appuntite che fendevano l’aria come artigli mentre disquisiva con una straordinaria foga – sicuramente superiore rispetto a quella che destinava ormai alla politica – di calcio o del suo amatissimo ciclismo. Alle spalle, mentre la squisita moglie Rori dall’eleganza fuori dal tempo domandava chi volesse un caffé, aveva un mezzobusto in bronzo che lo ritraeva più giovane, e decisamente bello. Avevo letto alcuni suoi libri, che mi erano stati regalati dall’editor che gli aveva restituito seconda vita dopo i successi degli anni Cinquanta, Simone Caltabellota. Avevo riletto poco prima anche Azorin e Mirò, e tutto in quella casa mi sembrava ‘subliminare’ secondo la lezione che dava in questo romanzo da poco ripubblicato, che andrebbe letto e riletto fino a impararlo a memoria (sub-liminare altro non è che un’autodefinizione critica per significare le epifanie, i momenti di poesia del quotidiano che rimandano ai Dublinesi di Joyce). Mi sembrava ‘subliminare’ la capacità di Cancogni di restare fedele a se stesso, di fare dell’indisciplinatezza una straordinaria regola di vita. Mentre lo guardavo – e mentre lo rivedo anche adesso, che mi basta chiudere gli occhi – mi tornano in mente le sue parole, come doni: “Le cose – scriveva in Azorin e Mirò – in genere sono oggetti che noi percepiamo genericamente, opacamente, in vista dell’uso da farne, non per quel che sono. Ma a tratti, in certi momenti speciali, quando la nostra attenzione si allenta, emergono chiare e nette, oltre la soglia della coscienza pratica, rivelando quel che sono in se stesse, per sempre”.

Questo articolo è stato pubblicato nella mia rubrica domenicale su “Il Tirreno” domenica 23 giugno 2019. 

 

 

Tutto, niente

Nellie, my dear

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La prima volta che scoprii la storia di Nellie Bly, quasi dieci anni fa, me ne innamorai. L’infanzia complessa, le sofferenze adolescenziali, la forza in se stessa e la capacità di andare contro tutti. Sempre e comunque. Era questo Nellie Bly, come magistralmente racconta adesso in “Dove nasce il vento” (Bompiani, pp. 200) Nicola Attadio, che da anni si occupa di comunicazione, ed è uno degli autori e delle voci di “Vite che non sono la tua” su Radio3 Rai.

Pioniera nel giornalismo e nella vita, Bly è stata definita “la madre di tutte le giornaliste” dal Wall Street Journal. Ennio Caretto ha detto di lei: «una Barzini senior in gonnella, una antesignana di Oriana Fallaci». David Randall l’ha classificata come “il miglior cronista infiltrato della storia”. Un curriculum che fa di lei una stella del giornalismo capace di girare il mondo in 72 giorni (ne fece un reportage splendido) e di firmare a soli 23 anni, fingendosi malata di mente, un’inchiesta sui manicomi. Ma chi era davvero? In realtà si chiamava Elizabeth Jane Cochran e nacque il 5 maggio 1864 in Pennsylvania, figlia di un ricco giudice locale. Una vita tranquilla, che mutò bruscamente nel 1870. Alla morte del padre, si scoprì infatti che non c’era un’eredità e che questo aveva due mogli e un totale di quindici figli: Elizabeth era la tredicesima. Fu l’inizio di un periodo nero. Come nei migliori dei film hollywoodiani, arrivò però il momento della svolta. Leggendo il Pittsburgh Dispatch, Elizabeth si imbatté in un articolo di Erasmus Wilson intitolato What girls are good for(Per che cosa suono buone le ragazze) in cui il giornalista denunciava l’allarmante e preoccupante diffondersi delle donne lavoratrici, un vero pericolo contro il quale suggeriva alle ragazze di tornare ad essere gli angeli della propria casa. La lettera che la ventenne spedì al giornale, firmata Lonely Orphan Girl (Ragazza orfana e solitaria) venne notata dal direttore George Madden. Dopo essersi incontrati, il Pittsburgh Dispatch pubblicò i primi articoli di Nellie: uno sulla discriminazione sessuale sui posti di lavoro e uno sul divorzio. Fu un successo. Nellie, come nota Attadio, diventerà“una reporter coraggiosa, intraprendente e pervicace. Una reporter che non si è fermata davanti ad alcun ostacolo. Non si è accontentata del posto che l’establishment maschile le aveva assegnato. Il suo messaggio è chiaro: I’m a free american girl”. Leggere questo e i suoi libri, reperibili anche in italiano, per credere.

 

Oggi, su Testi Tosti

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Le parole dei fiori nella nostra primavera ondivaga

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“Per il novantanove per cento, le espressioni figurate che le lingue umane posseggono sono prese dal mondo delle piante; per il novantanove per cento, tutte le forme ornamentali elaborate da ogni epoca, antica e recente, derivano dal mondo delle piante”. Notava così ne Il Giardiniere appassionato (Adelphi, 2003) Rudolf Borchardt, e fra un caprifoglio e un giunco fiorito, la primavera fa capolino fra odori e ricordi ne Le parole dei fiori (pp. 175, € 27), raffinato libro firmato dalla tedesca Isabel Kranz che ai legami fra letteratura e botanica ha dedicato parte della sua vita. Riecheggiano un poco, fra queste pagine, le ossessioni enciclopediche di Alfredo Cattabiani – che nel 1996 scrisse Florario – eppure lo sguardo è tutto improntato alla narrazione, tanto che pare di venire accompagnati per mano in un orto botanico popolato da fiori perenni, sempre disposti a rivelare quella storia, quel dettaglio, che ne hanno fermato sulla pagina e nel culto la memoria. Si parte dalla dama delle camelie di Alexandre Dumas – Marguerite Gautier, nobile prostituta che sul suo palco esponeva sempre camelie bianche, eccetto una settimana il mese in cui queste divenivano rosse – a quell’amante infelice che è il ciclamino, dalla Signora Crisantemo di Pierre Loti, metafora dell’incomprensibile Giappone agli occhi di un marinaio straniero, agli ossessionati dalle orchidee che vivono in un perenne orchid delirium. I riferimenti non sono mai scontati, o banali. Se pensate, per esempio, che biancospino sia legato a Proust, sbagliate: l’autrice preferisce raccontare la misteriosa storia di Beatrice Rapaccini, vittima di un uomo incapace di comprendere le allegorie. Il testo si rivela così affollato da citazioni, popolato da grandi nomi della letteratura e del cinema, siglato all’insegna del buon gusto e del dettaglio. Non è dunque consigliato a chi non sia cultore della materia: la lingua, e la bellezza esoterica del fiore. Fra i molti riferimenti, impossibile non riportare quelli che potrebbe diventare una metafora per i più. “Cerco dei fiori – rispose con un profondo sospiro – e non ne trovo” notava Goethe ne I dolori del giovane Werther. E Shakespeare, di tutta risposta: “E che è un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe il suo soave profumo”.

 

Oggi nella mia rubrica “Testi Tosti”.

A proposito di Lucca, Toscana, Lucca, Tutto, niente, Vite Lucchesi

Ironia Lucchese, WOM Festival

 

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A volte le idee arrivano quando meno te lo aspetti. E pensare che un festival di musica indie potesse sbarcare a Lucca è forse qualcosa di imprevedibile quanto immaginare la facciata della chiesa di San Francesco popolarsi con le provocatorie immagini di Peter Greenaway e trovare una violoncellista tatuata nella locandina di Lucca Classica. Eppure Lucca – bigotta, addormentata, provinciale e anche un poco classista, avviluppata nella sua squisita borghesia di facciata e di maniera – si risveglia ogni giorno un poco più contemporanea. Il merito è anche di chi ancora non ha trent’anni (o trent’anni li ha fatti da poco) e sceglie la città delle Mura, la nostra città, per creare cultura e turismo. O, più semplicemente, per produrre movimento. È quest’ultima la massima ambizione di David Martinelli e Francesco Sala, che hanno sognato un festival per promuovere la musica. La musica suonata, quella dei concerti, degli artisti indie e anche un poco sconosciuti (ma non troppo). Da tre anni i due organizzano il WOM Festival che si tiene l’ultimo fine settimana di maggio a Villa Bottini, e declina la scena musicale italiana attraverso gruppi che a Roma come a Milano sono piccoli cult, ma faticano (nonostante spotify e la rete) a imporsi nella nostrana provincia.

“Tutto è nato – mi racconta David Martinelli – tre anni fa. Mentre io e Francesco sorseggiavamo l’ultimo gin tonic in piazza, abbiamo deciso che avremmo provato a colmare questo vuoto. Abbiamo cominciato facendo suonare Davide Toffolo e Luca Masseroni dei Tre Allegri Ragazzi Morti nel chiostro della biblioteca civica Agorà, registrando un meraviglioso sold out e oltre duecento partecipanti. Poi Sara Loreni e Lucio Corsi nell’angolo di un pub appena fuori dalle mura. Con l’arrivo dell’estate, abbiamo allestito una rassegna a cadenza settimanale nell’Ostello San Frediano, che ha visto esibirsi le band più interessanti della nuova scena indipendente italiana, tra cui Canova, Campos, Bruno Belissimo, Lemandorle. I ragazzi lucchesi hanno iniziato a partecipare sempre più, segno che la mancanza di questo tipo di spettacolo fosse marcata. Così abbiamo deciso di fare un passo ulteriore: un vero e proprio festival di musica indie italiana di tre giorni”. Arrivano a Lucca in molti, e tutto viene fatto in casa con il sostegno del Comune di Lucca e di pochissimi altri sponsor. Viene lanciata anche una campagna di crowdfunding online su Eppela. “A primavera – continua Martinelli, che ha anche il dono di un’ironia lapalissiana e un poco inconsapevole -, stare in un giardino ad ascoltare musica super-figa è la cosa più goduriosa che ci sia. Se non fosse stato per Lucca, forse, io e Francesco non ci saremmo mai decisi ad iniziare un percorso come quello di WOM. La città ha avuto un’enorme carica ispiratrice. In particolar modo durante i primi tempi era divertente andare a cercare spazi che potessero prestarsi per concerti o feste varie. Per me, non ridere, Lucca è una super top model. Se Intimissimi dovesse far indossare i propri capi ad una città, sicuramente sceglierebbe Lucca!”. Impossibile, naturalmente, restare seri davanti a risposte così. “Parlando dei suoi amministratori però – precisa Martinelli – sarebbe auspicabile che tutti gli spazi pubblici di competenza comunale come ville e auditorium fossero totalmente efficienti e a disposizione dei cittadini. Ciò non capita sempre, ma confido che, partendo dagli errori fatti in passato, l’amministrazione possa aver imparato e riesca a raddrizzare il tiro. Le premesse ci sono”. Una frecciatina sottile, sottilissima. “Anche per questo a Lucca non è facile parlare di scena musicale, soprattutto perché non ci sono spazi per farla maturare. Potremmo parlare di campionati di calcio se non ci fossero campi sportivi? Credo che il compito delle band o dei musicisti che vivono tale privazione sia difficile e debba vertere su una grande collaborazione”. Ovvero? “Semplice: “Io ho una band, tu hai una band, diamoci una mano a vicenda per esibirci e condividere il pubblico, più siamo meglio è!”. Ci sono molti progetti più che validi a Lucca, ad esempio, mi piace lo spirito di collaborazione tra Ciulla e Gionata, due promettenti cantautori che, tra l’altro, si esibiranno anche al WOM!”. Poi c’è Effenberg, altro cantautore lucchese. E lo stesso Martinelli, laureato in filosofia, è un musicista. “Da poco più di un anno vivo a Pisa, ma sono nato e cresciuto a Lucca. La mia formazione deriva per lo più dalle esperienze avute con i Gonzaga, la mia band, grazie alle quali ho avuto modo di conoscere le varie figure professionali che si muovono in questo mondo. Tanta curiosità e voglia di capirci di più, sbagli e figuracce con i professionisti, quelli veri, hanno fatto e stanno facendo il resto”. Un resto che si conclude a fine mese: “Se la voglia di vedere artisti del calibro di Donatella Rettore, Colapesce, Selton, Francesco De Leo non dovesse essere sufficiente, un lucchese dovrebbe partecipare per respirare un clima di festa e di novità, per campanilismo verso i musicisti autoctoni in programmazione, per vedere quanto sono geniali gli artisti che esporranno le proprie opere nell’Area Expo. Dovrebbe partecipare perché, se non lo facesse, molto probabilmente starebbe a casa a lamentarsi”. E cosa direbbe? “Non c’è mai niente da fare nella mia città, che noia, vorrei vivere a Berlino! E cos’è questo rumore? Via, chiamo la polizia!”.

Su Il Tirreno, nella mia rubrica “Vite Lucchesi”.

Tutto, niente

In Esilio

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“La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore, e il nuovo non può rinascere”. Si apre così, con questa frase tratta da “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci, il nuovo, mirabilante, romanzo di Simone Lenzi, livornese classe 1968, frontman dei Virginiana Miller e autore di libri di successo, ultimo dei quali “La generazione” (2012, Dalai) che ha ispirato a Paolo Virzì “Tutti i santi giorni”. Il volume in questione si intitola “In esilio” (Rizzoli, pp. 225), ha in copertina un uovo fritto (quando “La generazione” aveva un uovo o, meglio, un ovulo intero) e un sottotitolo che da solo suggerisce la strada: “Se non ti ci mandano, vacci da solo”.

Protagonista del libro è un uomo che decide di andare altrove, lontano da tutti. Ma, se permette, inizierei da Gramsci.

Mi sembra che tutti quelli che hanno la mia età, e che si sono formati nel Novecento, ora si ritrovino a fronteggiare un mondo del quale non conoscono le coordinate. Il senso della fine di cui si parla nel libro riguarda anche questo. Riguarda la difficoltà che abbiamo a interpretare le situazioni, e tutto quello che culturalmente non riusciamo a comprendere. La crisi è evidente. La domanda è: quale sarà il mondo che le seguirà? Ammesso che sia un mondo davvero nuovo, e non sia riedizioni di cose vecchie con cui non vorremmo più avere a che fare.

Quest’ultima frase sembra un’altra dichiarazione politica.

Forse lo è.

Il protagonista, dicevamo, decide di esiliarsi.

Decide di fare un passo indietro rispetto a tutto. Di mettersi fra parentesi.

Perché?

Perché per lui questa è la soluzione migliore per capire se effettivamente ci sono ancora delle possibilità di vivere una vita decente, o se queste possibilità non ci sono più. C’è anche una volontà di sottrarsi a questo continuo frastuono che c’è tutto intorno a lui, a noi.

Di cosa è fatto questo frastuono?

È un bombardamento di notizie che notizie non sono. Una rabbia strisciante. Alla fine, stiamo parlando dell’ingaglioffimento del mondo. Stiamo parlando della nostra società inutilmente violenta, con la quale forse se si ha meno a che fare, si vive meglio.

Una visione catastrofica, smorzata nel libro da un’ironia che si potrebbe definire molto livornese. Eppure Livorno non la nomina mai.

Sarei sciocco a voler prescindere da questo. Io sono nato e cresciuto a Livorno, e sono indubbiamente livornese. Ma non la nomino perché volevo raccontare qualcosa che non avesse un respiro localistico. Volevo raccontare qualcosa nella quale potessero riconoscersi anche altri. C’è un unico riferimento, ma è inequivocabile.

Quale?

Quello al caciucco!

Oltre le preferenze culinarie, quanto c’è di autobiografico?

Quando scrivo, di autobiografico c’è tutto. Che le cose siano successe a me, o che riguardino la mia vita, non fa differenza. Cerco però di prendere le distanze, di essere distaccato. Provo a creare un mondo in cui il lettore possa ritrovarsi. Cerco di lasciare degli spazi perché il lettore possa metterci dentro del suo. In fondo, questa è la differenza fra la letteratura e il diario che si teneva alle medie, dove si scrivevano i motti del cuore.

Qual è stato il momento in cui l’idea si è trasformata in romanzo?

Dall’avvento dei social in poi, progressivamente ho capito che le stesse persone che avevo visto e frequentato viso a viso diventavano altre, assumevano un contorno diverso da quello che conoscevo. Anche le modalità di comunicazione cambiavano. Improvvisamente, non mi sono sentito più parte di una comunità, ma ho avvertito un demone multiforme, liquido, volgare. Ed è arrivato il bisogno di raccontare questa sorta di spaesamento. E siccome credo che questa sensazione riguardi centinaia di migliaia di persone nella nostra fase storica, è nato il romanzo.

Lei come si è salvato dal demone?

Un po’ come racconto nel libro. Militando molto la solitudine. Limitando la vita sociale, frequentando poche persone, andando a vivere in un paesello e facendomi ampiamente gli affari mai.

Si sente mai escluso dalla vita virtuale?

No, ma io sono un privilegiato. Ho la fortuna e l’opportunità di fare cose che si rivolgono per loro stessa natura all’altro, e questo non ti esclude. Mettiamola così, mi sono escluso da quello da cui mi volevo escludere.

Non deve essere facile per un musicista. Una curiosità, ma come cambia la scrittura e il pensiero componendo canzoni e romanzi?  

Oltre l’ovvia differenza tecnica nella scrittura, c’è poco. Per me sono due realizzazioni della stessa attitudine: avere a che fare con le parole. Mia grande passione.

Un’ultima domanda: ma come si esce dall’esilio?

Perché ci si dovrebbe uscire? Fino a quando ci si sta bene, ci si deve rimanere!

 

Oggi, su Il Tirreno.