Tutto, niente

L’Ilva, Taranto e le sue donne

Questa settimana su Gioia racconto l’Ilva delle donne, con interviste – fra l’altro – alla moglie di un operaio, Barbara Curia, alla pediatra Grazia Parisi e a un ex dipendente mobbizzata, Margherita Pillinini. Ecco di seguito l’intervista integrale alla regista Valentina D’Amico che ha girato “La Svolta. Donne contro l’Ilva” un interessante documentario presentato due anni fa alla Mostra del Cinema di Venezia.

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Come mai hai deciso di fare un documentario sull’Ilva?

Lavoravo come cronista in Puglia e mi capitava spesso di occuparmi di Taranto e Ilva, soprattutto per raccontare l’ennesimo morto sul lavoro nell’acciaieria più grande d’Europa. Trasferitami a Roma, lontana dalla pressione quotidiana del dover dare la notizia velocemente e senza pensarci su molto, riflettevo sui numeri (con una media di 2 operai morti all’anno, l’Ilva vantava il primato di operai morti sul posto di lavoro in Italia) e finalmente avevo tempo per ragionare sulle storie celate dietro a quei numeri. E mi chiedevo perché? Cosa succede al di là di quelle mura che, solo fino a qualche tempo fa, sembravano inespugnabili. Dietro a quei numeri storie di uomini, di famiglie costrette a subire il dolore della perdita repentina di un marito, un padre, un figlio schiacciato dall’ennesimo carro ponte crollato o soffocato dal gas mentre cambiava una valvola. O una fine lenta e inesorabile dopo anni di chemioterapia per aver inalato polvere di amianto. Poi un giorno mi arriva sull’email un comunicato stampa dei cobas che parla di donne belle perché combattive e coraggiose, che hanno deciso di dire basta e di sfidare l’Azienda nei tribunali, e con l’impegno nelle associazioni, nei sindacati. Decido di incontrarle e con loro scelgo la strada del racconto-denuncia con il documentario “La Svolta. Donne contro l’Ilva”.

Pensi che siano davvero le donne “la svolta” dell’Ilva? 

La svolta dell’Ilva sono i cittadini tutti, donne e uomini, che da anni pazientemente denunciano, con coerenza e puntigliosità, dati alla mano, l’insostenibilità di un sistema di produzione che antepone il profitto alla stessa vita umana. Perché di questo si tratta. Il vero problema è la connivenza della classe politica a tutti i livelli. Quella locale che non è riuscita ad andare oltre le dichiarazioni di principio perché se fai una legge regionale per l’abbattimento della diossina e non riesci a farla rispettare pretendendo e ottenendo il campionamento in continuo, 24 ore su 24 dei fumi dell’acciaieria, quella legge rimane una dichiarazione di principio. E quella nazionale che addirittura ha confezionato norme ad hoc a tutela dell’imprenditore e a scapito della salute dei cittadini come quando nel 2010 il governo Berlusconi ha approvato un decreto che innalzava i limiti di emissione del benzo(a)pirene, potente cancerogeno, oltre i limiti minimi fino ad allora previsti dalla legge italiana e in Europa. Una grossa responsabilità ce l’hanno anche i sindacati, miopi, culturalmente subalterni all’azienda, sponda di una politica interessata e di una informazione per lo più di parte che giocano in maniera irresponsabile nel contrapporre il diritto all’occupazione con quello alla salute.

Che cosa hai trovato e scoperto girando il documentario?

L’acqua calda. Che a Taranto gli operai dell’Ilva se non muoiono inseguito ad un incidente, non riescono comunque a godersi la pensione perché si ammalano puntualmente di cancro. Che in ogni famiglia c’è un malato di tumore. Che l’ambiente è devastato. L’itticoltura è in ginocchio, con il divieto di commercializzazione per le famose cozze tarantine allevate nel mar piccolo, perché contaminate da diossina e policlorobifenili. Per lo stesso motivo solo pochi anni fa interi greggi di pecore e capre sono stati abbattuti mandando sul lastrico intere famiglie che da generazioni e generazioni avevano fatto dell’allevamento del bestiame la loro fonte di vita. Che le uova dei pollai di Massafra, 20 km a nord di Taranto, sono contaminate. Che le lumache sono contaminate. Che i bambini del quartiere Tamburi non possono giocare nelle aree verdi del quartiere perché inquinate da policlorobifenili e berillio.

Il tuo documentario è del 2010. Cosa è cambiato in questi due anni?

Sicuramente è maturata la coscienza sociale e civile di una città prima indifferente e poi via via sempre più consapevole del diritto irrinunciabile alla salute, all’ambiente come bene comune da tutelare insieme al diritto sacrosanto al lavoro. Una città che oggi chiede e pretende un’alternativa di sviluppo ecosostenibile.

Qual è stata la testimonianza che ti ha più colpito? Perché?

Tutte e sei le donne protagoniste del documentario raccontano una storia personale drammatica. Francesca e Vita hanno perso rispettivamente il marito e il figlio, operai, morti in un incidente in azienda. Margherita ha subito una brutta storia di mobbing, è stata licenziata e ha rischiato di finire nella famigerata palazzina Laf, un reparto punitivo dove tra il 1997 e il 1998 sono stati rinchiusi ben 70 dipendenti che avevano osato ribellarsi al padrone, Emilio Riva. Molti di loro si sono ammalati di depressione, alcuni hanno tentato il suicidio. Nel documentario abbiamo raccolto la testimonianza di due internati. Margherita è scampata alla Laf perché nel frattempo la magistratura era finalmente intervenuta a sequestrare la palazzina condannando Riva per tentata violenza privata. Poi c’è la storia di Anna residente del quartiere Tamburi, finita sulla sedia a rotelle per una paralisi alle gambe. Ad oggi non esistono studi scientifici che dimostrino il nesso causale tra inquinamento e paralisi ma è un fatto che Anna ha il sangue infestato da metalli pesanti e che in tutte le cliniche che ha frequentato per la riabilitazione ha incontrato persone con patologie analoghe alla sua, guarda caso tutte residenti in zone industriali altamente inquinate, Gela, Brindisi, ecc. Infine la testimonianza di Caterina, figlia di un operaio Ilva, che dice “grazie all’Ilva mio padre ha potuto mandarci all’università ma avrei preferito una vita meno dignitosa piuttosto che scontare la malattia di un figlio”. Antonio, suo figlio, è un bambino autistico ed è ormai statisticamente provato, studi dell’università di Harvard lo dimostrano, che l’inquinamento ambientale è tra le cause della malattia. A Taranto negli ultimi 10-12 anni pare ci sia stato un incremento del 50% di bambini autistici.

Che opinione hai riguardo gli sviluppi, ormai quotidiani, dell’Ilva?

A mio parere la strada da seguire è quella intrapresa in Liguria oltre 10 anni fa quando fu chiusa l’area a caldo dell’Ilva di Genova. Quindi bonifica e riconversione. Nessun posto di lavoro andrebbe perso: con un’adeguata formazione durante il primo inevitabile periodo di cassa integrazione, dovuto al fermo degli impianti, gli operai potrebbero essere reimpiegati proprio in quelle opere di riqualificazione. C’è di che sfamare plotoni di operai per generazioni e generazioni perché poi il risanamento non si fermerebbe allo stabilimento: c’è da bonificare il mar piccolo, le zone limitrofe dove da sempre e nonostante tutto si è portato al pascolo il bestiame. Ne beneficerebbero gli operai dell’Ilva, ne beneficerebbero i miticoltori, gli allevatori, le loro famiglie, i loro figli… per generazioni e generazioni. Un’intera città potrebbe risorgere dalle ceneri di un sistema produttivo contrario ad ogni buon senso, oggi comunque non più accettabile. Allora, se è così semplice, perché non farlo, chiederai. Per la stessa ragione per cui si consente a Marchionne di fare il brutto e cattivo tempo a Pomigliano, a Mirafiori… La logica è sempre la stessa: la salvaguardia dei livelli minimi (massimi) di profitto che l’imprenditore ha deciso di mantenere. Con la complicità di politici compiacenti e sindacati miopi e irresponsabili. Guardando all’oggi da un’altra prospettiva, la domanda da porre forse sarebbe un’altra. Oggi a Genova si accetterebbe di riaprire il reparto a caldo dell’Ilva in nome dell’occupazione? Sarebbero disposti i cittadini di Cornigliano a tornare a respirare tonnellate di veleni? A nessuno, spero, verrebbe neanche lontanamente in mente di proporre un ritorno al passato e quello che si vuole a Taranto è un futuro diverso, in cui diritto al lavoro e diritto alla salute (alla vita) non siano posti in contrapposizione.

Se dovessi raccontare i Tamburi a chi non li ha mai visti, come li racconteresti?

Dopo una mezza giornata passata a girare per le strade del Tamburi ti ritrovi con la bocca impastata, una sensazione di sporco alle mani e il desiderio di bere acqua, tanta acqua.

E l’Ilva?

Sono entrata all’Ilva solo una volta, in un tour organizzato dall’azienda per la stampa locale. Come allo zoo ci facevano salire e scendere dal pullman sempre accompagnati, a mostrarci i gioiellini di famiglia. Ho potuto vedere una fabbrica linda, pulita. E vuota. Nessuna traccia dei 12mila operai e dipendenti tenuti evidentemente ben a distanza. Una situazione surreale. L’Ilva è una zona franca, una città nella città.  Quasi una città-stato, autonoma ma strettamente saldata a Taranto da cui succhia la linfa vitale (la manodopera, gli operai, non solo tarantini per la verità ma anche brindisini, leccesi, baresi, lucani…) per restituire in cambio, cosa? Briciole di salario e morte, malattie e devastazione ambientale.

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