Nel 1961 Barbie diventò assistente di volo. Aveva una graziosa divisa celeste con gonna scampanata al ginocchio, giacca adente, candida camicetta bianca a mezze maniche, leziose scarpine dal tacco nero in tinta con una borsa a cartella, cappellino e guanti avorio. Sorrideva in quel modo sgradevole cui siamo abituati, e aveva i capelli biondi a caschetto. Era una dipendente della compagnia statunitense, l’American Airlines, anche se nel 1966 (forse per mobilità) avrebbe indossato la divisa di Pan Am (abito blu scuro e capelli neri tragicamente cotonati) e solo nel 1973 sarebbe ritornata definitivamente alla casa madre. La Barbie Stewardess, che poi sarebbe diventata flight attendant, era il terzo esempio in casa Mattel di una bambola lavoratrice. Prima, Barbie era stata solo ballerina e infermiera. Improvvisamente grazie a lei l’immaginario delle bambine occidentali si ampliava, includendo un sottinteso significativo: le ambizioni delle loro madri. Nonostante gli incidenti aerei – come quello in cui morì a 22 anni Nelly Diener, la prima air hostess europea -, un posto da assistente di volo era ambitissimo. Considerate come l’emblema (truccato dal sessismo imperante) del successo femminile, apparivano giovani, bellissime, filiformi, vincenti e cosmopolite. L’interesse nei loro confronti era esploso fin dall’esordio, tanto che quando nel 1930 la Transcontinentale and Western Airlines aveva pubblicato un annuncio per 43 assunzioni, si erano presentate in duemila. I canoni di selezione erano molto rigidi, e basati esclusivamente su parametri estetici. Le candidate dovevano essere magre, alte, giovani, single ma non vedove, senza figli e con vista perfetta.
Non è poi cambiato molto. In Cina le assistenti di volo sono reclutate da agenzie di modelle fra le giovani studentesse con “voce dolce, e alcuna vergogna a esporre parti di pelle” e la compagnia Emirates Airlines, come ha riportato il New York Post, obbliga le sue dipendenti a rispettare rigidamente numerosi canoni estetici, fornendo indicazioni sul trucco e obbligando le dipendenti a non ingrassare (chi sgarra viene spedito in palestra e presso un centro di nutrizione). Forse è anche per questo che le hostess di Emirate sono considerate le più belle, almeno secondo lo Scott Schuman delle cabin crew: Jay, americano a Dubai, che ha abdicato al lavoro da giornalista per diventare assistente di prima classe , ma soprattutto blogger e instagrammer con lo pseudonimo di Fly Guy. A confermarlo è stata anche la competizione proposta dal sito di viaggio Trippy. Per rispondere a una domanda che assilla il mondo intero – Quale sono le hostess più calde (hottest)? – Trippy con l’ausilio di un software ha creato un volto-tipo per ogni compagnia con la fusione di numerosi scatti fatti al personale. Emirates Airlines ha trionfato con un rating di 7.17, all’ultimo posto Frontier Airlines con 5.48. Alitalia non classificata. E dire che la nostra compagnia di bandiera è ormai alla ricerca, nel momento di crisi totale che attraversa, di una sublimazione nella moda: a dicembre, nel corso dell’Alitalia Day, ha presentato in una sfilata le nuove divise firmate da Ettore Bilotta. Le uniformi che arrivano dopo 25 anni di medesimo look – firmato da Mondrian nel 1998 e prodotto dal gruppo Nadini di Vignola al costo complessivo di 9 miliardi di lire – hanno numerosi riferimenti al passato: l’eleganza delle forme, l’uso del rosso per il personale in volo (grigio antracite per gli uomini), e del verde per chi resta a terra (e anche dei criticatissimi collant). Barbie, che nel 2011 aveva celebrato Alitalia, presentando le quindici divise ufficiali delle hostess disegnate dai più celebri stilisti del mondo, dovrà aggiornare la collezione. A ricordare per sempre l’eleganza delle assistenti di volo nostrane resteranno il tailleur elegantissimo delle Sorelle Fontana (1950), il completo lineare di Delia Biagiotti (1960), la minigonna con spolverino verde firmato da Mila Schön (1969 e 1972), le gonne e camicette bianche dalle spalle squadrate di Renato Balestra (1986) e il doppiopetto grigio creato da Giorgio Armani (1991).
Puro lusso in confronto a ciò a cui sono state costrette le americane. Alla loro nascita, negli anni Trenta, indossavano tailleur dai toni pallidi, gonne al ginocchio e capelli ondulati nascosti sotto graziose cloche; dovevano suggerire il lusso e l’eleganza del jet-set, annullando ogni sentore della vigente depressione economica. Con gli anni Quaranta l’uniforme si fece più scura, comparì il rossetto rosso e i capelli vennero legati: l’ispirazione arrivava da Hollywood, e le hostess dovevano imitarne il look per avvenenza e classe. Negli anni Cinquanta Pan Am ebbe l’intuizione di sfruttare l’allure delle assistenti di volo per trasformarne il look in qualcosa di iconico. Nacque così la storica divisa blu aderente, la camicia bianca, il cappellino vezzoso portato sui capelli acconciati con cura (poi ripresa da Barbie). Negli anni Sessanta arrivò anche ad alta quota la moda. I biglietti più economici permettevano a un crescente numero di persone di utilizzare gli aerei, e così la libertà dello stile venne declinata in USA con osceni stivali bianchi al ginocchio, calze arancioni, mini abiti rossi e gialli con cappellino e cappa rossi. Negli anni Settanta si fece largo la bombetta, la gonna sopra il ginocchio, il gilet e la camicia colorata, mentre gli anni Ottanta furono il momento di trucco abbondante, vestiti colorati e blazer. I maxi spallini e le giacche over size segnarono gli anni Novanta, in accoppiata a calze trasparenti e mezzo tacco. Era l’ultimo grido di stile prima degli anni Duemila, quando la definitiva affermazione delle compagnie low cost ha suggerito look più dinamici, ma soprattutto economici. Tanto che le hostess di American Airlines hanno recentemente rifiutato di indossare le nuove divise a causa dei problemi dermatologici che le stoffe (scadenti) avevano dato a 1600 dipendenti. Il caso di Zac Posen, messo a lavoro per modernizzare gli abiti del personale di Delta Airlines (anche questi rossi), resta isolato e sono lontani i tempi del fashion in flight, che è diventato una mostra omonima all’Aviation Museum di San Francisco (fino al 10 settembre).
Se la moda è sempre di più qualcosa di collaterale alle hostess, il volo si appropria di interesse. Nel marzo 2016 Finnair ha ospitato una sfilata all’aeroporto di Helsinki, United Airlines ha lanciato una campagna social in collaborazione con Banana Republic, Lufthansa ha organizzato un fashion show su un boeing Francoforte/NY per lo stilista Rubin Singer: la prima sfilata a 30mila piedi d’altezza. Etihad Airways – che ha quote di minoranza anche in Alitalia, Jet Airways, airberlin – ha fatto ancora di più: arrivando a diventare partner delle Fashion Week internazionali, e presentandosi come sponsor ufficiale a 17 eventi annuali in tutto il mondo, da NY a Londra, da Milano a Mumbai. Ne è nato Runway to Runway, un nuovo member club che offre benefici alla comunità fashion internazionale. L’idea alla base è decisamente semplice: incanalare i globetrotter, e sfruttare il mondo della moda nel suo lato glamour, ma anche nella sua capacità di produrre desiderio attraverso la continua connessione globale. Alle hostess, fra uno sciopero e un atterraggio, non resta che il ricordo di un andato, mondo dorato.
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