In edicola, In libreria, Moda e Stile, Pagina99, Tutto, Tutto, niente

Fashion in flight

Divisa Delia Biagiotti per Alitalia 1964-1966 (Large).JPG

 

Nel 1961 Barbie diventò assistente di volo. Aveva una graziosa divisa celeste con gonna scampanata al ginocchio, giacca adente, candida camicetta bianca a mezze maniche, leziose scarpine dal tacco nero in tinta con una borsa a cartella, cappellino e guanti avorio. Sorrideva in quel modo sgradevole cui siamo abituati, e aveva i capelli biondi a caschetto. Era una dipendente della compagnia statunitense, l’American Airlines, anche se nel 1966 (forse per mobilità) avrebbe indossato la divisa di Pan Am (abito blu scuro e capelli neri tragicamente cotonati) e solo nel 1973 sarebbe ritornata definitivamente alla casa madre. La Barbie Stewardess, che poi sarebbe diventata flight attendant, era il terzo esempio in casa Mattel di una bambola lavoratrice. Prima, Barbie era stata solo ballerina e infermiera. Improvvisamente grazie a lei l’immaginario delle bambine occidentali si ampliava, includendo un sottinteso significativo: le ambizioni delle loro madri. Nonostante gli incidenti aerei – come quello in cui morì a 22 anni Nelly Diener, la prima air hostess europea -, un posto da assistente di volo era ambitissimo. Considerate come l’emblema (truccato dal sessismo imperante) del successo femminile, apparivano giovani, bellissime, filiformi, vincenti e cosmopolite. L’interesse nei loro confronti era esploso fin dall’esordio, tanto che quando nel 1930 la Transcontinentale and Western Airlines aveva pubblicato un annuncio per 43 assunzioni, si erano presentate in duemila. I canoni di selezione erano molto rigidi, e basati esclusivamente su parametri estetici. Le candidate dovevano essere magre, alte, giovani, single ma non vedove, senza figli e con vista perfetta.

barbie-11.jpg

Non è poi cambiato molto. In Cina le assistenti di volo sono reclutate da agenzie di modelle fra le giovani studentesse con “voce dolce, e alcuna vergogna a esporre parti di pelle” e la compagnia Emirates Airlines, come ha riportato il New York Post, obbliga le sue dipendenti a rispettare rigidamente numerosi canoni estetici, fornendo indicazioni sul trucco e obbligando le dipendenti a non ingrassare (chi sgarra viene spedito in palestra e presso un centro di nutrizione). Forse è anche per questo che le hostess di Emirate sono considerate le più belle, almeno secondo lo Scott Schuman delle cabin crew: Jay, americano a Dubai, che ha abdicato al lavoro da giornalista per diventare assistente di prima classe , ma soprattutto blogger e instagrammer con lo pseudonimo di Fly Guy. A confermarlo è stata anche la competizione proposta dal sito di viaggio Trippy. Per rispondere a una domanda che assilla il mondo intero – Quale sono le hostess più calde (hottest)? – Trippy con l’ausilio di un software ha creato un volto-tipo per ogni compagnia con la fusione di numerosi scatti fatti al personale. Emirates Airlines ha trionfato con un rating di 7.17, all’ultimo posto Frontier Airlines con 5.48. Alitalia non classificata. E dire che la nostra compagnia di bandiera è ormai alla ricerca, nel momento di crisi totale che attraversa, di una sublimazione nella moda: a dicembre, nel corso dell’Alitalia Day, ha presentato in una sfilata le nuove divise firmate da Ettore Bilotta. Le uniformi che arrivano dopo 25 anni di medesimo look – firmato da Mondrian nel 1998 e prodotto dal gruppo Nadini di Vignola al costo complessivo di 9 miliardi di lire – hanno numerosi riferimenti al passato: l’eleganza delle forme, l’uso del rosso per il personale in volo (grigio antracite per gli uomini), e del verde per chi resta a terra (e anche dei criticatissimi collant). Barbie, che nel 2011 aveva celebrato Alitalia, presentando le quindici divise ufficiali delle hostess disegnate dai più celebri stilisti del mondo, dovrà aggiornare la collezione. A ricordare per sempre l’eleganza delle assistenti di volo nostrane resteranno il tailleur elegantissimo delle Sorelle Fontana (1950), il completo lineare di Delia Biagiotti (1960), la minigonna con spolverino verde firmato da Mila Schön (1969 e 1972), le gonne e camicette bianche dalle spalle squadrate di Renato Balestra (1986) e il doppiopetto grigio creato da Giorgio Armani (1991).

Giorgio-Armani_image_ini_620x465_downonly.jpg

Puro lusso in confronto a ciò a cui sono state costrette le americane. Alla loro nascita, negli anni Trenta, indossavano tailleur dai toni pallidi, gonne al ginocchio e capelli ondulati nascosti sotto graziose cloche; dovevano suggerire il lusso e l’eleganza del jet-set, annullando ogni sentore della vigente depressione economica. Con gli anni Quaranta l’uniforme si fece più scura, comparì il rossetto rosso e i capelli vennero legati: l’ispirazione arrivava da Hollywood, e le hostess dovevano imitarne il look per avvenenza e classe. Negli anni Cinquanta Pan Am ebbe l’intuizione di sfruttare l’allure delle assistenti di volo per trasformarne il look in qualcosa di iconico. Nacque così la storica divisa blu aderente, la camicia bianca, il cappellino vezzoso portato sui capelli acconciati con cura (poi ripresa da Barbie). Negli anni Sessanta arrivò anche ad alta quota la moda. I biglietti più economici permettevano a un crescente numero di persone di utilizzare gli aerei, e così la libertà dello stile venne declinata in USA con osceni stivali bianchi al ginocchio, calze arancioni, mini abiti rossi e gialli con cappellino e cappa rossi. Negli anni Settanta si fece largo la bombetta, la gonna sopra il ginocchio, il gilet e la camicia colorata, mentre gli anni Ottanta furono il momento di trucco abbondante, vestiti colorati e blazer. I maxi spallini e le giacche over size segnarono gli anni Novanta, in accoppiata a calze trasparenti e mezzo tacco. Era l’ultimo grido di stile prima degli anni Duemila, quando la definitiva affermazione delle compagnie low cost ha suggerito look più dinamici, ma soprattutto economici. Tanto che le hostess di American Airlines hanno recentemente rifiutato di indossare le nuove divise a causa dei problemi dermatologici che le stoffe (scadenti) avevano dato a 1600 dipendenti. Il caso di Zac Posen, messo a lavoro per modernizzare gli abiti del personale di Delta Airlines (anche questi rossi), resta isolato e sono lontani i tempi del fashion in flight, che è diventato una mostra omonima all’Aviation Museum di San Francisco (fino al 10 settembre).

Barbie-divisa-Mila-Schon.jpg

Se la moda è sempre di più qualcosa di collaterale alle hostess, il volo si appropria di interesse. Nel marzo 2016 Finnair ha ospitato una sfilata all’aeroporto di Helsinki, United Airlines ha lanciato una campagna social in collaborazione con Banana Republic, Lufthansa ha organizzato un fashion show su un boeing Francoforte/NY per lo stilista Rubin Singer: la prima sfilata a 30mila piedi d’altezza. Etihad Airways – che ha quote di minoranza anche in Alitalia, Jet Airways, airberlin – ha fatto ancora di più: arrivando a diventare partner delle Fashion Week internazionali, e presentandosi come sponsor ufficiale a 17 eventi annuali in tutto il mondo, da NY a Londra, da Milano a Mumbai. Ne è nato Runway to Runway, un nuovo member club che offre benefici alla comunità fashion internazionale. L’idea alla base è decisamente semplice: incanalare i globetrotter, e sfruttare il mondo della moda nel suo lato glamour, ma anche nella sua capacità di produrre desiderio attraverso la continua connessione globale. Alle hostess, fra uno sciopero e un atterraggio, non resta che il ricordo di un andato, mondo dorato.

fashioninflightexhibitionLandingFinal.jpg

Questo articolo è stato pubblicato ieri su Pagina99, e lo trovate in edicola per tutta la settimana.

In edicola, Moda, Moda e Stile, Pagina99, The Meaning, Toscana, Lucca, Tutto, Tutto, niente

Dopamine Dressing?

coverlg.jpg

 

Se nel vostro armadio, accanto a una collezione di abiti funerari, è spuntata una gonna giallo canarino o un pullover turchese probabilmente siete anche voi vittime di La La Land. O, più semplicemente, siete inconsapevoli cultori del dopamine dressing, ultima strategia di automedicamento secondo cui indossare abiti divertenti e variopinti riesce a migliorare l’umore.

Archiviata la psicologia del colore – strategicamente usata nel marketing da anni, e fautrice di solidi legami fra sfumature cromatiche e applicazioni al fine di modellare gli impulsi del possibile acquirente –, la moda adesso è una colata arcobaleno di brillantezza che non lascia immuni neanche i grandi stilisti.

Armani fa di uno sgargiante arancione dai richiami orientali il suo colore feticcio per la primavera/estate 2017, e lo declina in preziose giacche in pelle, fluttuanti gonne in organza, vestiti trasparenti e orecchini oversize. Giambattista Valli opta per il rosa in tulle e per opulenti ricami floreali, mentre Maison Margiela alterna al total black, voluttuosi rossi. Gucci sceglie un labirinto di sfumature, lo stesso fanno Pucci e Versace. Anche la pelletteria non si rivela indenne da questo trend. La borsa del momento è firmata Loewe, ed è un elefantino multicolore diventato il vero protagonista delle fashion week internazionali; non meno attenzione, in termini di stampa e di vendite, hanno riscosso le borse con un paio di occhi di Anya Hindmarch e quella a strisce verticali di Sophie Hulme.

Naturalmente il dopamine dressing – portato a battesimo da Grazia UK, e divenuto oggetto di ampio dibattito sul The Guardian – è stato massicciamente adottato, più o meno consapevolmente, da attrici e trendsetter. I casi più eclatanti? Gwyneth Paltrow, che si è fatta fotografare con la green jumpsuit della designer inglese Emilia Wickstead, e Anna dello Russo che ha optato in un unico outfit per una borsa arcobaleno, cappotto broccato celeste, felpa rosa che indica il giorno della settimana di Alberta Ferretti (Monday, per la precisione).

Il buon umore a tutti i costi, come se non bastasse nella vita reale, ha attaccato anche i capi cheap. Ed ecco spuntare le Converse riadattate secondo Comme des Garçons, i jeans di House of Holland tempestati di cuori colorati, il wrap dress smanicato con cintura in tessuto color pesca riproposto da Mango e decisamente simile a quello inossato da Emma Stone nella pellicola di Damien Chazelle, l’abito giallo di Topshop Unique in lustrini già decretato capo cult di stagione.

E dire che al momento non esistono sostegni scientifici alla teoria. Come unico baluardo resta un articolo in grado di evidenziare il ruolo dell’abbigliamento nei processi cognitivi (Enclothed Cognition) pubblicato dal Journal of Experimental Social Psychology nel 2012 con la firma di Hajo Adam e di Adam Galinsky.

“Per quanto non sia ancora riscontrabile una dimostrazione scientifica, da tempo si è a conoscenza che certi colori migliorino l’umore” spiega la psichiatra Donatella Marazziti dell’Università di Pisa. “Con buona probabilità dal punto di vista cognitivo l’autocondizionamento può giocare un ruolo importante. Ovvero: mi sento meglio, o peggio, a seconda del colore che indosso. Si tratta di una suggestione che potrebbe rivelarsi come una sorta di incentivo, una vera e propria motivazione, capace di innescare l’aumento della dopamina, ovvero il neurotrasmettitore che sottende la gratificazione e il piacere”. Tutto rientra dunque nel campo dell’autopercezione, che per antonomasia non è replicabile o misurabile. Costantino della Gherardesca, conduttore televisivo e radiofonico, non ha dubbi e suggerisce anzi un’ulteriore passaggio: “Pratico da tempo il dopamine dressing. Anche se per me a fare la differenza non sono i colori, ma il taglio e le proporzioni degli abiti. La manica raglan, ad esempio, blocca la dopamina. Un calzino corto sarebbe praticamente un neurolettico. Per quanto mi riguarda, dopamine dressing è semplicemente vestirsi in modo decente. Paradossalmente, quando mi vesto comodo durante la giornata provo una sensazione di forte disagio. Se mi sento vestito male mi deprimo, se invece sono in giacca e cravatta sono decisamente più allegro. Siccome disprezzo gli uomini che si conciano male è corretto da parte mia, eticamente, odiarmi quando prediligo capi pratici”. Contorto, ma comprensibile e apprezzabile. “I vestiti in sé – sostiene Marina Savarese, autrice di Sfashion (Morellini Editore, pp. 200) e insegnante di fashion management al Polimoda di Firenze –  non possono renderti più felice. Sicuramente, però, esistono abiti che ti fanno stare bene e non sono necessariamente quelli che vanno di moda. Non esiste un codice estetico universale. Personalmente preferisco vestirmi in modo colorato, soprattutto quando la giornata è grigia, e a volte scelgo talmente tanti colori contemporaneamente da sembrare un arcobaleno. Così quando mi guardo allo specchio mi faccio allegria da sola. E chi mi incontra sorride. Merito anche dei miei capelli che ora sono rosa”.

Dopamine hair. Un fenomeno ancora da studiare, che forse potrebbe dare un senso al proliferare di decolorazioni presenti a vantaggio di colori pastello e del blorange – capelli biondi con riflessi arancioni, come un tramonto – considerato, a seconda del punto di vista, come l’ultima follia beauty, o il supremo trend.

Se pensate di essere immuni al dopamine dressing, iniziate a dubitare. La moda del colore, da sempre apprezzata in salsa pacchiana e celebrata iconicamente da serie televisive nostrane come Il boss delle cerimonie o Lucky Ladies sulle napoletane upper class, trova il modo di reinventarsi a seconda del soggetto, come racconta Matteo B. Bianchi, scrittore e autore televisivo. Da poco in libreria con una nuova edizione del suo primo successo, Generations of Love (Fandango, pp. 284), Bianchi non esita: “Nel mio armadio ci sono esclusivamente camicie dai colori simili, sui toni del blu e dell’azzurro. Detesto comprare vestiti, devo sforzarmi per farlo. Tempo fa durante i saldi ho acquistato un paio camicie e arrivato a casa ho scoperto che una l’avevo già: stesso modello, stesso colore. Questo la dice lunga sulla monotonia del mio abbigliamento. A volte invidio l’esuberanza dei capi altrui, ma non me li vedrei mai addosso. La verità è che sono un abitudinario, e tendo a scegliermi una sorta di divisa nella quale mi sento a mio agio. D’inverno camicie a scacchi, d’estate felpa su t-shirt. Le mie esagerazioni sono t-shirt rosso acceso, o giallo squillante. Le metto quando sono nel mood giusto. Mi sembra di indossare qualcosa di vagamente provocatorio. Non è insomma roba per tutti i giorni”. Evidentemente La La Land e il colore, l’ultimo antidepressivo made in fashion, non lo hanno ancora contagiato.

 

 

dop-dressing.jpg

Questo articolo è uscito ieri su Pagina99. Lo trovate in edicola per tutta la settimana. 

c-galleries-587e4687103f6fe9074a0af2-anya-hindmarch.jpg

Donne, In edicola, Moda, Moda e Stile, Pagina99, Tutto, niente

Moda AAAfricana


Ladene Clark

 

Un antico proverbio africano ammonisce: “il cuore dell’uomo non è un sacco dove chiunque possa mettere mano”. Si potrebbe dire lo stesso del guardaroba femminile, difficilmente incline a lasciare entrare in modo acritico nuovi stilisti e trend. Eppure, da quando il glocal allo stile di Dolce&Gabbana, l’ecologico-vegan di Stella McCartney, il super raffinato di Valentino e il made in China di Burberry hanno cominciato a stufare, si è creata la predisposizione mentale (e lo spazio fisico nell’armadio) per fare largo a nuove firme.

Non c’è niente di meglio, allora, di intercettare quel mercato silenzioso e in grande fermento che parte da latitudini inaspettate per trasformare le fantasie di lunghi abiti in chiffon, così come quelle di tute in rayon e di scamiciati in cotone. Protagonisti diventano allora stilisti che arrivano dal Sudan, dal Ghana, dalla Nigeria, dallo Zimbabwe e si mostrano al mondo nelle fashion week dedicate nei loro Paesi, ma anche in quelle organizzate in autunno a New York (dal 4 settembre) e a Londra.

Orientarsi in questo sistema fashion fatto di galassie dalle alterne fortune non è affatto semplice, ma si può cominciare dalla ghanese Catherine Addai, direttrice creativa e stilista del marchio Kaela Kay, che propone delle stravaganti composizioni (sempre in bilico fra l’ultrachic e il cafonal) in grado di sovrapporre le classiche stampe geometriche a provocanti inserti jungla. “Quello che cerco di fare – spiega Addai – è di partire dall’Africa, che è di fatto la mia prima ispirazione, per poi aprirmi al mondo e alle sue influenze. Non avrebbe senso lavorare in altro modo. Vedo la cultura africana come un lago da cui si abbeverano in molti. Il mio tentativo adesso è quello di produrre mix originali”. Simile la prospettiva di Fenix Couture, emblema del melting pot: a fondarlo è stata nel 2009 Josephyn Akioyamen dopo aver studiato fashion tanto a Lagos quanto in Canada, al George Brown College di Toronto. “Le mie fonti di ispirazione – commenta la stilista – sono tutte legate alla natura, e il mio sforzo maggiore è quello di creare dei capi versatili e femminili, che comunichino sensualità e lusso. Sono nata a Lagos e fin da quando ero bambina mi incantavo con i colori del mio Paese, facevo vestiti alle mie bambole e per me stessa ispirandomi ai tramonti e agli animali. Arrivare a vendere adesso i miei abiti è un sogno”. E sogni sono anche quelli che lei mette in scena nelle sue collezioni, dove tessuti dai colori sgargianti e dalle fantasie appariscenti creano look sorprendentemente eleganti a dimostrazione che il fucsia può essere perfetto insieme al turchese, e il giallo limone si accoppi con successo vicino al verde anguria e al bianco latte.

Azzardi di geometrie e sfumature sono anche quelli di Thembeka Vilakazi che, dopo essersi laureata nel 2005, ha fondato il marchio Yadah Exclusive Designs, proponendo abiti classici con gonne a ruota e vestiti che, ci scommettiamo, nei prossimi anni verranno notati dalle major. “Credo nei dipinti africani – spiega la stilista a pagina99 -, negli accessori fatti a mano che riescono a fondere con creatività i colori e le rispettive luci. La mia ispirazione viene dalla cultura e dalla musica africana, forse anche per questo non mi sono mai interessata a guardare gli stilisti europei o quelli americani. La nostra moda è diversa, vibra per quello che rappresenta. E io ogni volta provo con i miei abiti a testimoniare l’unicità del nostro Paese”.

 

top-african-bloggers-tee-tee-is-with-me

 

Ambizioni e riuscite diverse per il giovane brand Shakare Couture, inaugurato nel 2012 da Ewemade Erhabor-Emokpae che propone cortocircuiti a base di pezzi vintage e atmosfere africane. Un esempio? Gonnelloni dalle stampe di leopardi e occhialoni a punta direttamente dagli anni Cinquanta. Uno stile molto apprezzato dai blogger africani che popolano la rete e si fanno notare sempre più dai network mondiali, tanto che anche The Guardian ne fa una classifica: per noi i più interessanti sono iseeadifferentyou.tumblr.com dove tre ragazzi di Soweto fotografano in giro per l’Africa gli stili più interessanti e onenigerianboy.com per la moda maschile (da notare le camice). Da non sottovalutare il ruolo di ambasciatrici della moda africana operato dalle it-girl allo stile di Marian Kihogo, che passa da Johannesburg a Londra con la stessa facilità con cui noi beviamo un caffè ed è nota per i suoi look appariscenti, o dalle nascenti modelle come Ladene Clark o Adesuwa Aighewi, che compaiono con frequenza regolare sulle passerelle più importanti. In ogni caso, è fondamentale ricordare che lo stile africano ha delle personalissime regole e i risultati non sempre sono vincenti. Si capisce nettamente studiando il percorso creativo di African Fashion Today (AFT), che ha sede a Berna e propone (orride) maglie fluo su pantaloni di pelle o abitini ricamati che sembrano usciti (purtroppo) dagli anni Settanta. È necessario dunque molto buon gusto, come deve ben sapere il gotha dello stile internazionale che all’Africa si ispira di sovente. Se nell’arte, il continente ha influenzato Matisse e Picasso, nella moda il principio è con Monsieur Christian Dior che nel 1947 presentò al mondo due abiti destinati a far discutere: Jungle e Afrique. La melodia africana esplose nel 1967, quando Yves Saint Laurent con la collezione Bambara portò alla ribalta maxi bracciali e collane in ebano, mini abiti a fiori, cappe e vestiti decorati con perline e conchiglie. Nello stesso tempo anche Valentino dava alla savana – con capi stampati in stile giraffa e zebra – il diritto di sfilata e di fotografia (celeberrime ancora oggi le foto di Mirella Petteni in posa per Gian Paolo Barbieri). Con fortune alterne, lo stile africano è sopravvissuto agli ultimi quarant’anni, ma il 2014 è senza dubbio un’annata fortunata, tanto che per quest’estate l’Africa style, naturalmente rielaborato in chiave chic, è abusato da Emilio Pucci (che nelle ultime collezioni pare ossessionato da questo tipo di stampe, tanto da risultare un tantinello noioso) e molto presente nella passerella di Valentino, che ha proposto donne in completi geometrici dai colori sgargianti. Ma non è finita: Céline ha avanzato maxi completi rossi con gigantesche macchie nere, Marc Jacobs elegantissime borsette in pelle da stampe poco equivoche, Missoni eleganti monospalla in colori scuri impreziositi da grossi bracciali in osso.

Fra contaminazioni e presenze, pare dunque impossibile non registrare il crescente interesse verso l’Africa e i suoi talenti, dovuto anche al moltiplicarsi di fashion stylist e vip afroamericani che tendono a preferire le sorprendenti atmosfere africane ai banaleggianti classici statunitensi-europei. Insomma, per sintetizzare con un altro proverbio africano di fresca coniazione: “il guardaroba di una donna non è un posto dove chiunque possa introdurre un vestito”. Stilista (africano) avvisato, mezzo (fashion designer nostrano) salvato.

 

 

MARIAN KIHOGO copy Hannan Saleh

Questo articolo è uscito sabato 12 luglio su Pagina99

Donne, Moda, Moda e Stile, Pagina99, The Meaning

Questioni di Biker

ASGER JUEL LARSEN

Esiste il vero motociclista, e quello di moda. Il primo compra abbigliamento tecnico per ripararsi dal freddo e dalla pioggia, sta attento che le scarpe siano adatte a percorrere lunghi viaggi in posizioni scomode, cerca capi che possano proteggerlo in caso di incidente. Il secondo non indosserebbe mai un casco (neanche se fosse firmato da Karl Lagerfeld), eppure ha un armadio pieno di pantaloni in pelle, perfecto e stivali da biker. A differenziare i veri biker dai fake non è il senso del ridicolo né la necessità di praticità, né la disponibilità economica o la passione motociclistica, bensì – per dirla con le parole di John Carl Flügel nella Psicologia dell’abbigliamento (FrancoAngeli) – la soddisfazione di sé. Il motociclista è l’essere protetto che seleziona i vestiti in base alla necessità, il fake è il tipo sublimato che trova nell’esibizione di abiti la felicità narcisistica.

Dimitri

“Quello che è di moda lo troverete difficilmente in un negozio di motociclisti veri, a meno che non sia un monomarca Harley-Davidson. Il biker vestito di pelle appartiene all’immaginario collettivo americano, mentre in Italia sono decisamente più diffusi gli appassionati che cercano abbigliamento tecnico per godersi al meglio la moto, preferendo materiali sintetici e cordura” spiegano da MotoAction, megastore di riferimento per tutti gli appassionati del Nord Italia. A farsi un giro fra i negozi milanesi e romani sembra proprio vero. Ormai chiodo e stivali da biker, declinati in fasce di prezzo che vanno dai cinquecento ai diecimila euro, fanno parte solo dei guardaroba di donne che cercano un look “grintoso, iconico e very rock”. Insomma, ça vasans ironie, di donne che cercano lo stile on the road attraverso dei pezzi resi dal cinema senza tempo cui la moda, oggi più che mai, ama nutrirsi. “Vampirizzare delle sottoculture per farne dei trend di massa non è cosa nuova. Nel passato è accaduto con tutte le mode giovanili, che una volta entrate nell’atmosfera dei brand spesso hanno perso tutta la loro originalità e la potenza di esprimere rabbia e disaccordo. Da anni sta accadendo anche con l’universo biker” commenta Giorgio Riello, autore de La Moda (Laterza). Non bisogna dunque sorprendersi se anche per questa stagione praticamente tutte le case di moda propongano un florilegio di pellame, declinato nel gusto classico allo stile di Jean Paul Gaultier o Yves Saint Laurent, ma anche avvolto nel lusso come riesce a fare Louis Vuitton, che crea un trionfo dell’esagerazione artigianale, o Acne, che propone un perfecto bianco dagli elaborati dettagli. Bottega Veneta suggerisce invece una versione femminile con tanto di sostenute ruches, mentre Antonio Berardi e 3.1 Philip Lim destrutturano il capo per farne il primo una jacket avvolgente, il secondo un vero e proprio soprabito, a mezze maniche, dalle tinte catarifrangenti.

 

maisonmartinmargiela pss 2014

L’imperativo è dunque quello di appropriarsi del flavor biker, declinandolo in colori e in texture differenti. Dimitri, marchio fondato a Milano nel 2007 da Dimitrios Panagiotopoulos che fa del made in Italy la sua cifra, per la primavera-estate presenta degli aderentissimi pantaloni in pelle alla caviglia dagli intensi colori. Si spinge oltre lo stilista danese Asger Juel Larsen, che indica il chiodo come un passepartout. “Voglio che i miei capi – spiega Larsen – abbiano un’anima ribelle e militare, che possano sembrare appena usciti da un manicomio, ma allo stesso tempo che mostrino la loro anima sartoriale, raffinatissima. Vengono dalle mie esperienze personali e dai miei incubi, dalla mia continua ricerca di materiali e di sovrapposizioni. Raggiungere un’estetica innovativa è quello che davvero mi interessa”. Potrebbero essere parole pronunciate dal Martin Margiela dei tempi d’oro o da Nicolas Ghesquière, quando ancora militava nelle file di Balenciaga. Invece no. Anche loro, adesso, sono allineati nel rock-bike-fake-style.

Acne Studio

 

Questo articolo è uscito la settimana scorsa su Pagina99.

Moda, Moda e Stile, Pagina99, Toscana, Lucca, Tutto, niente

Questioni di artigianato

3-Giorgini_salabianca_1954.jpg

Era il 1910. A Parigi sfilavano le modelle di Paul Poiret, elegantissime in verticali abiti sgargianti, e nell’aria si avvertiva il futuro che avrebbe avuto la semplice raffinatezza di Coco Chanel e la sontuosità di Monsieur Dior. In Italia, invece, la moda non era più di casa da almeno cinquant’anni, la guerra aveva sfibrato le sartorie e la creatività nazionale, lasciando però una scia di abili artigiani, che avevano ereditato tradizioni e capacità dal Medioevo, all’epoca delle Arti Maggiori e Minori. I bravi maestri dell’epoca avevano nomi come Gucci, Fendi e Ferragamo, ma fu necessaria la nascita di Pitti prima, e di stilisti come Valentino e Armani poi, per fare grande la nostra moda all’estero. A cercare un sinonimo di quel made in Italy che affascina anche i Paesi Emergenti, tanto che entro i prossimi sei anni le importazioni dovrebbero raggiungere il 40%, forse non è la nostrana creatività, quanto piuttosto la qualità della lavorazione e l’attenzione ai dettagli. Non c’è dunque da stupirsi che Luis Vuitton abbia scelto di puntare sull’Italia per la sua filiera produttiva, affiancando giovanissimi apprendisti ai 138 artigiani-operai dell’azienda di Fiesso d’Artico, fra Padova e Venezia, dove dal 2003 produce calzature. E che Prada abbia deciso di fare qualcosa in più: inaugurare la Prada Academy che, ideata da Patrizio Bertelli, partirà nel Valdarnese l’anno prossimo e sarà rivolta a 60 ragazzi tra i 16 e i 21 anni, che verranno istruiti secondo la tradizione di bottega: i vecchi operai formeranno sul campo i nuovi. Design Zhang Ziyu Da tempo, però, sull’appeal dell’Italia artigiana puntano anche gli stranieri – come il Maestro Raymond Riaci, che nel 1983 ha aperto a Firenze una scuola di arti e mestieri, insegnando ai giovani di tutto il mondo l’arte di calzolai, orafi, maestri pellai e vetrai – o le grandi accademie di formazione italiane, dall’Istituto Marangoni all’Accademia di Costume e di Moda di Roma, che quest’anno festeggia cinquant’anni e ha prodotto talenti come Frida Giannini e Tommaso Aquilano, artefice in coppia con Roberto Rimondi delle collezioni Fay. “Le nostre parole chiave – spiega il direttore Andrea Lupo Lanzara – sono ricerca, progettualità, prodotto e stile. Seguiamo i nostri studenti tanto nel processo di creazione quanto in quello pratico. È fondamentale imparare cosa c’è dietro un’idea, ovvero quella dimensione artigianale che contraddistingue il nostro Paese da sempre”. Più proiettata nel futuro è forse la posizione del Polimoda di Firenze, nato trent’anni fa per creare un legame ancora più forte fra il capoluogo toscano e lo stile. L’istituto ha infatti appena mandato a battesimo il mastering craft for fashion, un corso di quattro anni che spingerà gli studenti fra legno e pizzo, passando dalla ceramica alla paglia, a creare corsetti e maglioni, ma anche video e libri che riassumano il concetto di artigianalità e creatività. “La moda – commenta la direttrice, Linda Loppa – è in continua evoluzione. Si tratta di uno specchio che riflette il futuro ed è la fotografia in movimento dei comportamenti sociali, politici ed ecologici del mondo in cui viviamo. In questa frenesia si inserisce l’artigianato, che deve necessariamente essere al passo con i tempi. Noi vogliamo creare artigiani per la moda, ovvero figure capaci di creare il prodotto artigianale e saper raccontare delle storie antiche, guardando allo stesso tempo il futuro”. Una sfida difficile, ma oggi più che mai necessaria.

Questo articolo, in una versione diversa, è uscito sabato 10 maggio su Pagina99.  

Donne, In edicola, In libreria, Moda e Stile, Pagina99, Roma, The Meaning

Ma quanto è fashion la Sicilia

Marpessa, Modica, 1987

Quando Ferdinando Scianna, nel 1987, ritraeva la splendida modella olandese Marpessa a Modica, incastonata fra quattro anziane del posto, pensava al caro amico e maestro Henri Cartier-Bresson, e alla sua prima regola: mai mettere in posa il mondo. Scattava fotografie meravigliose, che sarebbero entrate nella storia e avrebbero fatto la fortuna della coppia Dolce&Gabbana, ma un po’ si sentiva in colpa per quella trasgressione. Poi, però, arrivò un bambino che cominciò a imitarlo; allora Scianna indietreggiò, lo lasciò fare e ritrovò la magia che solo gli scatti fortunati, quelli nati dalla vita e non dalla costruzione, riescono a custodire.

Marpessa, Caltagirone, 1987

Scatti in bianco e nero che dal 16 maggio, fino al 18 luglio, verranno proposti insieme ad altri frammenti di sicilianitudine a Palazzo Taverna, dove la galleria Artistocratic, in partnership con la galleria Emmeotto, presenta Sicilia Mondo. Unviaggio tanto nella genialità di Ferdinando Scianna, primo fotografo a entrare nella prestigiosissima Agenzia Magnum, quanto nel suo viscerale legame con la terra d’origine che ricorre eterna, selvaggia, religiosissima in ogni scatto, poco importa che le protagoniste siano donne impegnate in feste religiose o splendide modelle. L’attaccamento verghiano alla terra si mostra in ogni fotografia, e lo stesso Scianna ammette che, pur avendo viaggiato per tutto il mondo: “non si va mai via completamente dalla Sicilia, non si distrugge dentro di sé un’appartenenza così drammaticamente forte”.

Venerdì Santo, Enna, 1963

Un’appartenenza che ha segnato in positivo le sorti del duo per metà siciliano Dolce&Gabbana (Gabbana è milanese) e della loro quarta collezione, quella che vide Scianna fotografo alla fine degli anni Ottanta e che portò sulle passerelle il “vestito siciliano” considerato dal fashion guru Hal Rubenstein come uno dei 100 abiti più importanti mai disegnati. Da qualche anno, dopo un periodo di distanza dalla cultura siculocentrica, i due sono tornati in pieno delirio trinacrio, cominciando a firmare autonomamente le proprie campagne promozionali a base di carretti siciliani, fichi d’india, famosissime modelle e aitanti giovanotti locali, che per questa primavera sono fornai, pescatori, macellai. “Ci piace vivere, ma solo all’italiana! E raccontare quel Paese fiabesco, irreale, sognato che ha reso dappertutto famosa l’Italia” hanno spiegato, sintetizzando la loro vincente chiave glocal che viene declinata perfino nell’underwear, nella cosmetica e nei profumi dove non è possibile dimenticare Sicily, che è anche il nome di una celebre borsa della maison.

Dal-backstage-della-campagna-Primavera-Estate-2014-di-Dolce-Gabbana_main_image_object

Ma la Sicilia ispiratrice spopola e si mostra adesso in altre collezioni firmate da stilisti emergenti, come quella del giovanissimo Ivano Triolo, classe 1981, che per la primavera/estate propone donne vestite d’oro e d’argento o di Claudio di Mari, che presenta procacissime modelle abbigliate con vesti prenunziali di pizzi e merletti nella collezione Bianca di Stromboli, rigorosamente made in Sicily. A conferma delle parole di Gesualdo Bufalino, che definiva l’isola vittima di “un eccesso di identità”, arriva poi il messinese Fausto Puglisi, noto per aver inaugurato una nuova frontiera del trash nostrano durante il Festival di Sanremo 2013, quando grazie al suo abito dallo scollo inguinale l’Italia intera venne messa a conoscenza della farfallina di Belen Rodriguez. Per questa estate Puglisi predilige scenari asettici e modelle in fantasie geometriche o stampe di palme. Da decidere ancora se l’ispirazione sono le Palm Islands (Dubai) o l’Isola delle Palme (Augusta). Fatto sta che, dallo stile alle fotografie, la Sicilia diventa una moda e resta un mistero. E, allora, come diceva Leonardo Sciascia: “Sai cos’è la nostra vita? La tua e la mia? Un sogno fatto in Sicilia. Forse stiamo ancora lì e stiamo sognando”.

Sciascia, Racalmuto, 1964

 

Questo articolo è uscito su Pagina99 sabato 3 maggio 2014 

Moda, Moda e Stile, Pagina99, The Meaning, Tutto, niente

Oggi, su Pagina99

Marpessa, Modica, 1987

 

Oggi, e per tutta la settimana, trovate un mio pezzo su Pagina99WE sulla sicilianitudine declinata da Tornatore a Scianna, da D&G a Fausto Puglisi (quello che ha creato il tragico vestitino di Belen al festival di Sanremo 2013, quello della farfallina per intenderci), da Bufalino a Sciascia. Perché niente è più immaginifico di una modella olandese a Modica. Leggere, e guardare, per credere. 

Moda, Moda e Stile, Pagina99, Parole, Tutto, niente

Viaggio nel Made in Italy, dove anche il falso può essere vero

1_angelina

 

Frammenti dalla Patria del Made in Italy: un italiano su due ammette di comprare tarocco, ogni giorno la Guardia di Finanza sequestra centinaia di capi contraffatti tanto che nel 2013 sono stati confiscati 22 milioni di articoli d’abbigliamento, laboratori di “falsi veri” si moltiplicano fra Puglia, Campania e Toscana. Non producono più per le grandi aziende in subappalto e con condizioni pietose, come il sarto Pasquale di Gomorra, ma si ingegnano per mettere in circolo articoli contraffatti a prezzi da autentici.

Se oggi la moda italiana è un giro da 50 miliardi di euro di fatturato l’anno, con esportazioni per 27, anche il mercato del falso non se la passa male: produce 6,9 milioni di euro fra abbigliamento, giocattoli e falsi. La Camera di Commercio stima che i fake rubino al nostro Paese ogni anno 110.000 posti di lavoro e 13,6 miliardi di produzione alle imprese. La questione del tarocco non è dunque più lineare come un tempo. È un mercato agguerrito e globale, in cui però riusciamo a primeggiare: noi italiani ne siamo i terzi produttori europei, e i primi consumatori.

look-book-zara-ottobre-2

“All’inizio c’erano le paccottiglie vendute solo da marocchini e senegalesi a bordo spiaggia o su improvvisati banchetti di cartone – spiega Giò Rosi, pseudonimo dietro cui si nasconde un consulente di produzione delle più importanti aziende del made in Italy -. Falsi evidenti, dall’aria talmente grossolana da non trarre in inganno nessuno”. Merce contraffatta prodotta in Cina, ma anche in provincia di Napoli, nella zona di Martina Franca, nel Pratese. Ed è proprio dal Macrolotto che decido di iniziare questo viaggio nelle viscere del mercato patacca. Ci vado di sera, quando si avverte solo l’odore di maiale fritto e il rumore delle macchine da cucire. Per le strade non c’è nessuno, ma di giorno qui è tutto un via vai di camion con targhe spagnole, francesi, tedesche: vengono a comprare pronto moda, abbigliamento usa e getta per i mercati d’Europa e per i negozi low cost. La merce è di qualità neppure troppo scadente, e la domanda è sempre la stessa: ingrosso o negozio? “Qui – mi spiega Eling Zhan, ventidue anni, lunga frangetta e jeans bucati – possiamo fare tutto quello che vuoi. Devi solo portarci gli originali. Per mille capi ci vogliono due giorni”. Zhan è nata a Prato, la sua famiglia è emigrata in Italia trent’anni fa dalle campagne intorno a Shenzhen. “Ma se il capo è di marca?” domando, fingendo noncuranza. Intorno a noi ci sono migliaia di trench, giacche a vento, pantaloni, jeans, golf e t-shirt. È un carnevale di colori, di stoffe, di stili. Del rogo mortale che sconvolse l’Italia a dicembre – e delle condizioni pietose in cui qui si lavora – nessuno sembra aver più ricordo. Lei scuote la testa: “Non è un problema, ma mettere le etichette costa di più”. Già, ci vogliono dai due ai tre minuti. Ma è in questo brandello di tela disegnata, spesso proveniente dalla Turchia, che è contenuto il confine fra vero e tarocco. “Purtroppo – puntualizza Giò Rosi, autore del libro-confessione Made in Italy (Anteprima) – esistono falsi che sembrano veri perfino agli occhi di chi è esperto come me. Sono oggetti prodotti dalle medesime aziende che confezionano per quelle di moda, dunque non variano né il tessuto né le modalità di produzione. Capita per Benetton, Valentino, Dolce&Gabbana, Cavalli. Ma la lista è lunghissima”. A essere penalizzati non sono tanto i consumatori – che credono di comprare un originale, e invece acquistano una copia con la medesima qualità della versione ufficiale – quanto le case di moda che in questo gap perdono, spesso a loro insaputa, centinaia di migliaia di euro. “Funziona così: l’azienda decide di delocalizzare, si affida a un licenziatario che seleziona le alternative economicamente più vantaggiose, tutto viene portato all’estero, ma manca il controllo. Le firme più importanti mandano checker una volta ogni due, tre mesi e così se invece di 5000 giacche ne vengono realizzate 10000 nessuno è in grado di scoprirlo. La commercializzazione è più complicata, qualcuno a volte viene beccato, ma tutto rimane sotto traccia”. Le mete più gettonate in Europa sono la Bulgaria e la Romania, dove una linea interminabile collega le varie confecioni che sorgono indistintamente in ogni città fra Sofia e Bucarest. La tradizione sartoriale qui è quasi centenaria: in queste terre l’URSS faceva produrre i capi d’abbigliamento, ed è proprio qui che i precursori della delocalizzazione, come i Marzotto, arrivarono ai tempi di Ceaușescu. Gli stipendi arrivano a 250-300 euro e così l’azienda si illude di risparmiare, intrappolandosi in situazioni poco gestibili.

VALENTINO-RESORT2014D

La domanda viene spontanea: ma quanto costa realmente un capo d’abbigliamento? “Per fare un giubbino – continua Rosi – un tessuto discreto costa 3€, i bottoni 0,50 l’uno, la zip meno di 1€, le fodere e gli adesivi per correggere gli errori arrivano a 2€. Con la manodopera si sfiorano i 30€ per prodotti di media qualità. Gli articoli venduti a 800€ nei negozi hanno invece circa 30€ di materiale e 30€ di manodopera. In Italia non è molto diverso: il risparmio Paesi dell’Est-Italia è di 7, 8, a volte 9 €”. Tutto qui? “Già, tutto qui. Per questo molti vanno in Cina, in Bangladesh, in India. In Oriente è possibile anche eliminare la fase della creazione e della progettazione: ci sono delle realtà che forniscono collezioni chiavi in mano”. È cosa poco nota, ma reale: un’azienda del genere l’ho visitata una manciata di settimane fa a Jodhpur, nel Rajastan. Era un’interminabile sequenza di pantaloni, giacche e maglie. In fondo, una stanza dove si poteva scegliere il colore, il tessuto, lo stile per ogni singolo articolo. Fra i suoi clienti aziende nostrane di fascia medio alta: le maglie che pagano quattro euro, le vendono a centocinquanta. “Se continuiamo così perdiamo l’essenza del made in Italy. Stiamo diventando il paese del pronto moda. Soltanto alcuni grandi gruppi, come il leader LVMH che fa un fatturato di 24 miliardi di euro e possiede marchi come Dior, Vuitton, Fendi e Marc Jacobs, investono ancora nel nostro Paese facendo sopravvivere i nostri laboratori” conclude Rosi. Per dirlo con le parole di Theodor Adorno: “Il tutto è falso”. Adesso tocca a noi trovare in cosa (e dove) è possibile riconoscere ancora qualcosa di vero.

SOCIETA-Made-in-Italy

 Questo articolo è stato pubblicato su Pagina99WE sabato 5 aprile.